In occasione della presentazione di questo illuminante libro ho colto l'occasione per fare quattro chiacchere e qualche domanda a Chiara Caporicci, autrice di questo testo che prende forma dalla sua inedita tesi di laurea.
Nel libro si cerca di dare una dimensione storica del mercato musicale italiano per capire meglio la situazione odierna, approfondendo poi su argomenti specifici sotto forma di intervista a particolari personalità.
Lettura agevole e interessante soprattutto perchè unica nel suo genere con il pregio attirare un pò di attenzione sulla situazione attuale di etichette, artisti e musica.
Ciao Chiara, raccontaci qualcosa di te, cosa fai nella vita?
Principalmente leggo e cucino, in silenzio. Ogni tanto cerco di cazzeggiare con la musica per arrivare alla fine del mese! Scherzi a parte, Davide, lavoro al MEI ormai da 2 anni e mezzo, un'esperienza indubbiamente significativa per me, per la mia formazione, una sorta di sfida quotidiana con me stessa per riuscire a districarmi in questo mondo controverso della musica indipendente italiana cercando di capire quali siano le scelte più giuste.
Nel panorama estremamente autoreferenziale che è la musica indipendente il tuo libro è di certo unico nel suo genere e fa una panoramica efficace del passato della musica indipendente italiana. Ma il tanto caotico presente? Cosa succede adesso in italia? E a macrolivello mondiale?
(12 maggio, new york post: Len Blavatnik già possiede Warner ora tenta l'acquisizione di EMI. proiezioni dati 2011 fatturato warner $310 MLN + Emi $540 MLN)
Il tanto caotico presente, come anticipi te, tende sempre più ad una concentrazione di quelli che sono i grandi poteri delle case discografiche mondiali. Da The Big Four a The Big One, scherzandoci su, ma senza ridere. Purtroppo a questo monopolio under construction corrisponde sempre più una frammentazione di milioni di piccoli operatori indipendenti (nb. nel senso di non multinazionali) che lavorano nel mercato e che hanno difficoltà nelle loro attività di produzione discografica (vendita e promozione) perchè non riescono a sostenere i costi del mercato. Molti ne escono, e lavorano solamente fuori dal mercato, fuori dai canali convenzionali, focalizzando le loro produzioni in nicchie di pubblico che spesso non si sente più riconosciuto nei canali, diciamo, “ufficiali”. Di conseguenza, le etichette si son dovute allargare (come formazione e aree di azione, difficilmente in termini di staff) ad altre attività, come l'organizzazione di eventi e propri festival, il booking selvaggio o addirittura la gestione di spazi culturali, attività che prima erano lontane dal concetto di “etichetta discografica” ma che negli anni sono state assorbite per scopi di sopravvivenza e sostentamento.
Hai in progetto di scrivere un "seguito"? Del tipo musica indipendente in italia 2: la vendetta? O comunque di continuare a trattare l'argomento sotto altri aspetti?
In realtà con l'argomento mi ci incontro e mi ci scontro quotidianamente!! Non so sinceramente se ci sarà una vendetta, almeno così “Pubblica” :) Vorrei approfondire di più alcune dinamiche per conoscenza personale, in questi anni ho incontrato molte esperienze spesso trascurate che hanno un significato molto alto per me e per quello che dovrebbe significare essere indipendenti. Vedi il Collettivo Angelo Mai, che ho provato a raccontare nei mio libro. Mi piacerebbe raccogliere queste storie e raccontarle. Questo si, magari uscendo dalla dimensione editoriale di una pubblicazione e concentrarmi di più su una diffusione istituzionale e socialmente riconosciuta.
In questo momento di fermento tecnologico in cui ci sono efficaci piattaforme per la promozione e la vendita della musica ad un artista, che già molto spesso si paga lo studio e il master da solo, serve un'etichetta? si può far davvero tutto da soli? è più facile e auspicabile un viraggio, e per certi un ritorno, al DIY?
Si può fare molto da soli. Io credo molto nel DIY e spesso mi è capitato di consigliare ad amici musicisti di appoggiarlo. Il problema poi sta nella differenziazione. In questo marasma di artisti, siti, link, recensioni, concertini sparsi qua e là, spesso se non c'è il sostegno di uno staff serio e competente, come può essere quello di un'etichetta che opera in maniera professionale e con passione, si rischia di disperdere il proprio lavoro creativo in un appiattimento generale. Colpa è anche dei mezzi sempre più condivisi, accessibili a tutti, anche a chi non sa usarli. Nella mia piccola esperienza ho capito che non si ha bisogno di un'etichetta in quanto tale o in quanto logo nei dischi o nei comunicati stampa, ma la cosa più importante è circondarsi di persone con passione, operatori che credono nel progetto la cui promozione necessita sacrificio e dedizione.
Cambiando un poco argomento. Tempo fa hai lavorato in una web radio con un programma che trattava la musica indipendente italiana. Come vedi questo proliferare di realtà di ogni tipo, professionali, di qualità e spesso amatoriali? Esiste la possibilità di fare rete e incidere un poco sulla diffusione della musica indipendente?
E' un proliferare che mi piace, sintomo di un'esigenza culturale che non si arrende. Esistono degli aggregatori importanti, come ad esempio RadUni per le web radio universitarie, che lavorando da anni con attenzione e “a testa bassa” è riuscito a legittimare un circuito vivace e giovane e a confrontarsi con molti operatori della musica di livello nazionale. Nella rete e nella condivisione di risorse c'è la chiave, di questo ne sono più che convinta.
Infine. Domanda imprescindibile. Il file sharing è il cancro o la linfa della musica? Il mercato di musica fisica segue regole sue su cui è inutile sproloquiare. Ma per quantro riguarda il mercato digitale, è possibile che non siamo più abituati a pagare la musica? La mancanza di una contribuzione a metà strada tra il pagare un disco ZERO e pagarlo cifre spropositate, sta tarpando le ali al digitale?
Riguardo ciò vi rimando anche ad una bellissima intervista di radiobutt (storico blog musicale) al creatore di Captain Crawl che è davvero illuminante (parola del giorno), ora si trova qui.
http://nycjunta.com/wp-content/uploads/2010/06/radiobuttmusic-vs-captaincrawl.pdf
Mi fai una domanda sulla quale non ho ancora un'idea esatta. Te lo dico con tutta sincerità. Ho iniziato a pensare che il problema non sia il file sharing in quanto cancro (o linfa). Il problema potrebbe essere invece che trovare una regolamentazione adatta è diventato impossibile. E' questo che tarpa le ali ad un mercato digitale percepito come reale spazio di contrattazione. Ci focalizziamo spesso sull'acquisto di musica dal punto di vista del compratore (costi e reperibilità) invece credo che il problema sia che non c'è una regolamentazione adatta nella distribuzione digitale e le poche regole che ci sono sono confuse e spesso di dubbia utilità e tutela, tant'è che molti musicisti si sono disabituati a credere che avere un riconoscimento dall'on line sia un loro diritto, innescando così una reazione a catena. Naturalmente non direttamente per colpa loro.
Da parte mia posso dirti che non ho mai acquistato legalmente una compilation su I-Tunes o dei semplici mp3, non è una modalità che amo e che condivido. Ascolto in streaming e poi vado a comprarmi il cd, che talvolta non trovo nei negozi di dischi e quindi vado direttamente alla fonte. A volte scarico, te lo confesso. Ma difficilmente “scarico per possedere”. Sono due cose che si escludono, a parer mio. Non sono sicura che il download illegale danneggi totalmente la musica, perchè in molti casi la rende reperibile. E talvolta, è l'unico canale di distribuzione. Credo che i ragazzi della mia generazione siano ancora abituati a comprare la musica, purtroppo dobbiamo fare sempre più fatica per reperirla e abbiamo iniziato ad abbandonarci alla clandestinità...