domenica 29 luglio 2012

Warm Up: Storia di qualche italiano al San Miguel Primavera Sound 2012

Io, Marcello Petruzzi di anni trentasei e in arte 33 ore, una sorta di report del famoso festival l’avrei anche fatto. Ho dei fogli, ho delle note, anzi le ho già quasi tutte riscritte in digitale. Però mi sono voluto interrogare con alcuni quesiti che alla fine mi hanno condotto qui, a darvi un solo importante spaccato del grande evento internazionale. Non posso che essere onesto. In quattro giorni ho visto vari gruppi musicali tra i più e i meno noti esibirsi al Primavera Sound, qualcosa mi ha emozionato, eppure non sono mai stato un folle cercatore di esibizioni, né un turista musicale che corre fra i palchi e fa lo slalom fra i due puntini degli orari incrociati con l’incertezza sul da farsi, né quello che sa i nomi dei membri delle band o quello che ha inclinazioni a farsi e tenersi dei miti. Forse mi manca pure l’inclinazione all’entusiasmo, ahimé. Sembra che della musica non me ne importi nulla.
Mi interessava molto invece vedere che cosa sarebbe stato il concetto di festival internazionale nella sua rotazione attorno alla presenza senza precedenti di due realtà musicali professionistiche del nostro Paese e delle loro proposte su tale scenario. Un interesse che a conti fatti è paradossale rispetto all’essenza del discorso che conoscerete leggendo, ma che se vogliamo riassumere ci dice questo: non c’è mica bisogno di dire di che paese siamo.


Sfera Cubica e A buzz Supreme sono due entità italiane che si occupano di organizzazione di eventi, promozione, management ed edizioni musicali e che approdano al festival catalano con le proprie forze, in quest’anno iniziatico supportate anche dal Comune di Bologna. L’obiettivo di essere una referenza nelle relazioni internazionali è una buona parte della mission di A Buzz Supreme come di Sfera Cubica, giovane realtà per ragione sociale che però si fonda sulle esperienze già consolidate de La Famosa Etichetta Trovarobato e di altri profili professionali come Andrea Schipani, Chiara Caporicci, Andrea Polidoro.
Sono stato invitato allo showcase che due artisti dell’area A Buzz Supreme / Sfera Cubica stanno per tenere nella vip lounge dell’Hotel Diagonal, il grande albergo in zona Auditorium che ospita tutte le star del festival. Showcase ovvero due anticipazioni per addetti ai lavori dei rispettivi concerti nel programma pubblico.



In un mezzogiorno caldissimo ho deciso di dedicarmi, più che alle due brevi esposizioni-concerto, a sentire cosa hanno da dire le persone che hanno organizzato questo cocktail party, per poi tentare di raccogliere una forma molto particolare di intervista-colazione con le due band. A dispetto dell’orario e del clima da ebollizione infatti, so già che questi davvero non hanno ancora mangiato niente e in giro ci sono solo piattini di cibo fritto, chele di crostacei, finger-food di formaggi fusi, mentre al bancone si serve birra fredda a ruota libera.


Poche parole scambiate con Andrea Sbaragli di A Buzz Supreme e con Gianluca Giusti e Michele Orvieti di Sfera Cubica servono a chiarire ancora una volta quanto siano state in salita per un tempo inaccettabile le strade e le vicende degli artisti italiani all’estero. Forse c’è uno spazio ragionevole per discutere in vario modo di una subordinazione stilistica nelle decennali fasi di sviluppo di una musica non generalista in Italia, però è certamente fondata una causa di natura tecnico-organizzativa, propositiva o se vogliamo connessa ad un ruolo mai fortemente reclamato né cercato dagli operatori culturali italiani che lavorano nel settore.


Come professionisti, i miei interlocutori arrivano alla giornata odierna come ad uno dei tanti risultati di un’operatività continua, certamente uno dei risultati meglio visibili agli occhi esterni. È sicuramente motivo di orgoglio aver lavorato in maniera assidua per anni, creando e gestendo reti di contatti in cui agevolare la crescita di interesse per la musica nostrana all’estero, ovvero per proposte musicali di volta in volta considerate adatte ad un contesto internazionale come quello del San Miguel Primavera Sound Festival.


Il riferimento è naturalmente per gli artisti che vedremo quest’anno. C’è Alberto Mariotti, quel Samuel Katarro che A Buzz Supreme ha fatto crescere fino ad oggi e che arriva a Barcellona per presentare ufficialmente il progetto sotto il nuovo nome King Of The Opera. C’è poi Paolo Iocca e il progetto Boxeur The Coeur, nuova veste – se vogliamo – di un discorso musicale pluridecennale che ha sempre rigettato l’idea di confine geografico. La sostanza del discorso a ben vedere è semplice ed esprime l’intenzione di dotare quel contesto estero di una presenza italiana costruita su un valore effettivo e ragionato, diciamo non temporaneo; ho apprezzato molto, nella conversazione, quanto sia sentita da parte loro l’opportunità di non enfatizzare la questione della provenienza nazionale, unico modo per mostrarsi competenti e globali.




Boxeur The Coeur sta già suonando; ha deciso di lasciare un po’ da parte il versante del songwriting per fare un set completamente electro, una formalità quasi da epopea dj. C’è gente che balla, funziona. Termina il suo act e lo ritrovo per due chiacchiere veloci mentre si preparano i King of the Opera. Ci conosciamo da anni ormai, io e Paolo. Ho suonato nei suoi due progetti principali. Giura di non voler toccare sostanze alcoliche ancora per qualche ora, ma i piattini di gamberi impanati, dopo lo showcase, glie li vedo passare fra le mani. Dice che la sua presenza al Primavera Sound è il punto più alto che abbia mai toccato in tutta la sua carriera musicale e alla tanta esperienza fatta passando in particolar modo attraverso i Franklin Delano e i Blake/e/e/e. Come musicista si è trovato fra le situazioni tra le più disparate e da esse ha evidentemente imparato a dare il meglio davanti a due persone come davanti alle centinaia. Di certo non ha alcuna intenzione di scendere, contento di appartenere a questo ambiente organizzato in maniera ottimale insieme a tanti professionisti disponibili allo scambio quanto discreti.
Bello anche il suo show nel programma principale. Avrebbe trovato un feedback migliore di quello comunque appagante che c’è stato, soltanto suonando un’ora dopo il calare del sole, dove il sound elettronico può rispecchiare meglio certe atmosfere che peraltro Boxeur The Coeur stimola con l’effetto scenico delle vernici colorate fluo. Elettronica di cui non ho mezzi precisi per descriverne gli aspetti al netto delle frequenze emanate. Vedo che c’è un lavoro complesso di allineamento di strumentazione che dà un buon risultato ma anche forse qualche retaggio analogico, voglio dire una simulazione di strumenti di un’altra sfera che invece potrebbero essere definitivamente aboliti.


I King of the Opera sono in tre, Alberto Francesco e Simone. I primi due si sono svegliati mezz’ora prima dell’esibizione, hanno suonato e ora sono davanti a me con le dita nei piattini e sul collo delle bottiglie di birra. Simone non si sa dov’è. Il disco nuovo uscirà quasi certamente a novembre riconfermando – come sarebbe possibile il contrario? – la collaborazione con Trovarobato.
La domanda sul cambio di nome in Italia probabilmente li bersaglierà fuori misura. Io per fortuna, che non sono un giornalista, mi ritrovo l’argomento senza cercarlo. Alberto dice solo che il progetto Samuel Katarro è diventato una cosa diversa da dove era partito, mentre Francesco e Simone sono ormai parte integrante della band. Sono due terzi di band. È finito il tempo della solitudine compositiva, cioè della personalità singola che spicca per la sua provenienza privata. Torna invece il tempo dell’interplay e dell’imparare reciprocamente. È un trio a tutti gli effetti, in studio come sul palco. Loro la vedono come una nuova forma di disciplina.
Più strettamente sul nome, l’idea di base è quella di chiamare in causa l’opera con una vena di leggerezza ma senza irriverenza nei confronti di un genere “alto” che ha reso famosa l’Italia all’estero, forse l’unico se si tralascia – per motivi differenti – il prog e l’italo disco. Ed è un paese di cui non vergognarsi mai, anche se si va riconfermando quanto sia superfluo ribadire la provenienza nazionale.
Se poi si tratta di osservare la musica italiana nel momento in cui resta confinata nei confini statali, i King of the Opera ne rigettano alcune caratteristiche. Non certo il testo in italiano, ma la fissazione per l’attaccamento contenutistico ad un attuale facile, fugace, buffonesco. Il privilegiare il Cosa invece del Come, lo svantaggio del contenuto sonoro e musicale rispetto al trovare un consenso con strumenti populisti, sia che si tratti di revival della canzone d’autore targata anni Settanta che di argomenti giovanilisticamente “caldi” e a scadenza. Sono queste le due correnti dell’attualità musicale italiana? Fantastico, mi sembra di capire benissimo di cosa mi stanno parlando questi due.
Nel suo concerto di Programma, King of the Opera è un gruppo che fa fermare i passanti con attitudine psichedelica, il pubblico è attento e gratificato. Li sento come un ottimo equilibrio tra la centralità dell’autore delle canzoni, comunque piuttosto obliqua già in Samuel katarro, e la forza corale che da quanto mi hanno raccontato è ormai un matter of fact. È musica che mi piace, non so se si tratti di quella che forse viene chiamata weird-folk. Mi sembra comunque un approccio accessibile, che privilegia finezze e non complesse bizzarrie. L’idea di coralità e di completezza è confermata.

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