"Sono maiali. Noi non abbiamo suonato UNA nota di quel pezzo! Molti mi hanno addirittura chiesto "Ma come hai fatto a far quella voce?", ma io non c'entro proprio niente! Sono stati catturati i suoni nel momento in cui i maiali ricevono del cibo per nutrirsi. In teoria, è felicità. In pratica, viene percepito tutto il contrario, che trasmette un forte senso di devastazione."
La Stefania Pedretti - strumento vocale con chitarra degli OvO - che mi regala questa curiosità su Fame, undicesima e ultima traccia del nuovo album Abisso, è la stessa che, dopo un'oretta circa, sale sul palco del Controsenso accompagnata dal colossale Bruno Dorella alla batteria, pronta per affrontare - col sorriso stampato in faccia e una voglia assurda di suonare - quello che si rivelerà essere un live carichissimo e sentito. Prima del concerto di Venerdì 17 Gennaio, ho passato una piacevole oretta chiacchierando con loro in una sala prove del locale, uscendone poi contenta e soddisfatta. Le mie domande e le tante parole di risposta che fluttuavano nell'aria sono state riportate per iscritto per l'intervista che state per leggere. Cominciamo! (Foto di Angelica Gallorini)
OvO: cos'è, perché.
Stefania: OvO è un po' un gioco linguistico, di parole: sarebbe semplicemente la parola "Nuovo", tagliata, con risultato "Ovo". L'abbiamo scelta quando io e Bruno avevamo deciso di fare un gruppo. Soprattutto per i nostri primi album eravamo soliti scegliere i titoli delle canzoni, o altro, a volte guardandoci intorno, nella stanza, prendendo spunto da libri vari. In quel caso, mentre discutevamo sulla scelta del nome, mi è caduto l'occhio sulla scritta "Nuovo", e quindi ho pensato a "Ovo". Pur trattandosi di tre lettere semplicissime, le sfumature che esse possono acquisire sono tante. "Ovo" sembra quasi la traduzione di "Uovo" in Portoghese, in Spagnolo, inoltre un Inglese riesce a pronunciarlo senza storpiarlo. Attira l'attenzione, ti rimane in testa, e si tratta di un nome palindromo, ovvero che può essere letto sia da sinistra verso destra, che da destra verso sinistra. In più, nel tempo ha avuto anche uno sviluppo estetico, grafico.
Bruno: Sì: col passare degli anni, nei vari volantini che ci hanno fatto, è diventato una faccia, un gufo, due persone che si tengono per mano, una bicicletta. Può trasformarsi in tante cose.
Quando e in che modo vi siete avvicinati alla Musica?
Bruno: Molto diversamente, apparteniamo a mondi del tutto differenti! Per quanto riguarda me, a dodici anni avevo già deciso che avrei fatto il musicista nella vita. Ancora prima, mio cugino mi regalò una chitarra e una cassetta degli U2: la Musica era diventata l'unica cosa che potevo pensare di saper fare. Ho avuto tanti gruppi a partire già da quando ero ragazzino.
Stefania: Per me è nata prima la passione per la Musica, nel senso che ero un'ascoltatrice in primis e soprattutto una grande amante dei concerti, per poter vivere tutto live, fisicamente. La musicista che è in me è invece nata in seguito, negli anni Novanta, quando avevo venti anni. Ho iniziato a suonare con un gruppo di altre tre ragazze con le quali gestivo un centro sociale: avevamo sempre gli strumenti a portata di mano, e abbiamo deciso così di cominciare a suonare. Poi ho iniziato con gli OvO, e con i miei progetti da solista.
Come nascono i vostri pezzi? Cosa ricercate e privilegiate maggiormente nel suono?
Bruno: Suoniamo insieme da quattordici anni, e musicalmente ci conosciamo molto bene a vicenda: quando uno inizia a suonare qualcosa, l'altro lo segue quasi a ruota. Spesso si parte da un ritmo, da un tempo, piuttosto che da un riff, anche perché abbiamo entrambi la caratteristica di ascoltare un po' di tutto, con la consapevolezza che poi questo "tutto", una volta passato per il frullatore OvO, diventi un qualcosa di più. Che so, facciamo un pezzo Stoner-Rock: io penso al Rock, Stefania ci applica il suo stile, ed ecco che il "tutto" si trasforma personalizzandosi. A volte partiamo anche da dei canovacci ritmici semplici, quasi standard, che però risultano completamente diversi quando siamo noi a risuonarli. Di solito, il "tutto" nasce da un pattern ritmico su cui Stefania poi suona e canta. Il suo aspetto eccezionale è l'improvvisazione iniziale su un pezzo che poi però rimane sempre tale e quale. Quando disegna, vede già l'immagine sul foglio bianco. Quando suona, sente un ritmo, crea di conseguenza una melodia e, senza registrarla, è capace di riprodurla anche dopo sei mesi in modo identico.
In che lingua canti, Stefania?
Stefania: Nella mia, fatta di suoni. Non uso parole, uso note. Per ricreare i pezzi, devo riascoltarmi i dischi, dall'inizio alla fine, e capire cosa ho fatto. Come una persona che deve tradurre un testo che non conosce. La mia voce è come se fosse un vero e proprio strumento: in automatico, si accorda con la tonalità del suono che percepisce. Fa strano a dirsi, ma è proprio così! Ha un'identità sua. Ora riesco a domarla un po' di più, ma alcune volte ha lei la meglio: se la stanza suona diversa, con sfumature più brillanti o no, l'intonazione cambia.
Definitemi Abisso.
Bruno: È la condizione in cui ci siamo trovati senza saperlo prima. Ce ne siamo resi conto quando eravamo già sprofondati (ride). No, è vero. Con questo album abbiamo sì sperimentato più ricchezza nel suono, approfondito più cose, messo fine alla fase minimale, però ad un certo punto ho vissuto l'esperienza Abisso come sprofondamento verticale in basso, ma potevamo interpretarlo anche come baratro dall'alto. Ci siamo ritrovati a lavorare su del materiale che ci stava sfuggendo di mano in un certo senso, ma in un modo che a noi piaceva. Avevamo capito che stava vedendo fuori una cosa che o ci avrebbe distrutto, o portato ad un altro livello. Mi rendo conto che sia un po' difficile da spiegare, però mi sono sentito davvero così. Mi ricordo benissimo il momento in cui in macchina, tornando dalla registrazione delle demo, parlavo con Stefania "Questo disco qua è un Abisso. Ci stiamo infognando in qualcosa di bello, anche se adesso non sappiamo se, e come ne usciremo". È una sensazione molto precisa.
Stefania: Ci ha proprio rivoluzionati. A volte ha preso un po' le redini anche lui. Fa strano, normalmente i musicisti non parlando del disco come se fosse un essere esterno. Ci chiedevamo "Ma noi riusciremo a portarla dal vivo questa roba?". È un concetto molto astratto da spiegare, anche perché adesso che ascolto il disco è tutto easy. Quando le persone percepiscono la nostra Musica vedono le tenebre e l'oscuro come una cosa negativa, ma non è così, non sono negative. È fare altro, sperimentare. Non credo nella luce, non credo nelle tenebre, penso all'oscuro in positivo. Andare nell'Abisso, avere una conoscenza più profonda di noi. A noi piace metterci in discussione, metterci alla prova. Questo disco è Oceano. Ecco, Abisso è Oceano con i suoi mille significati.
Cosa vi ha portato ad affrontare il cambiamento estetico nel togliere le maschere, dopo tredici anni? C'è stato un motivo in particolare?
Bruno: Ci abbiamo messo un anno a decidere, non è stato per niente semplice, e non lo è tuttora. L'idea era partita da me: a volte ero a disagio con la maschera perché sentivo che, con questo nuovo disco, si stava verificando un cambiamento a livello compositivo. Avevo capito che molte persone si fermavano all'impatto dello spettacolo live: "Vado a vedere gli OvO perché la Musica sarà altissima, spaccherà, sarà un delirio, e poi ci son questi con le maschere". Volevo staccarmi da questo aspetto perché la gente ascoltasse solo la Musica, senza porre attenzione ad altro. All'inizio Stefania non era d'accordo (conta che sull'aspetto estetico l'ultima parola è la sua), ma piano piano siamo riusciti a trovare delle motivazioni comuni. Adesso che le abbiamo tolte sono io - proprio io che avevo proposto il cambiamento - a rendermi conto di essere in difficoltà! Stefania, invece, sta benissimo, ed ha anche guadagnato molto a livello estetico. Live, quando non sono tranquillo, di solito tengo la maschera e la tolgo dopo il primo pezzo, per attutire il tutto. Queste maschere ci hanno accompagnati per tredici anni, fanno parte della nostra storia.
Stefania: Portare una maschera può significare tante cose. Quando sali sul palco e sei in una situazione di disagio, la maschera ti permette di nasconderti dagli sguardi delle persone, ponendo un distacco.
L'estetica, l'aspetto scenografico, le atmosfere che vi caratterizzano come gruppo si sposano perfettamente con la Musica che suonate: questa vostra idea di sperimentare è nata istintivamente al progetto oppure ha visto la luce in un secondo tempo, dopo qualche live? Stefania: È nata insieme al progetto. L'esperienza a 360 gradi del live è un percorso, come accade nel teatro giapponese: prima del concerto c'è chi scrive le scalette, noi ci incontriamo, ci cambiamo e già in quel momento inizia l'avventura; entriamo nel nostro mondo, focalizzandoci solo sul concerto. Tutto il resto scompare. Nel corso degli anni, il gruppo ha vissuto più "realtà": all'inizio OvO era completamente improvvisato, e Bruno ed io, durante il primo tour, suonavamo entrambi la chitarra, non c'era batteria. Ogni concerto vedeva noi due alla "base" con altre persone che suonavano con noi. Anarchia totale da gruppo aperto, e ogni sera si creava qualcosa di diverso e irripetibile. Dal 2002 abbiamo optato per il duo only ed è cambiato tutto.
Oltre al progetto OvO, ne portate avanti altri individualmente (Bruno Dorella con i Bachi da Pietra, e Stefania Pedretti con Allun e ?Alos. Questi mondi si influenzano anche minimamente oppure sono distaccati l'uno dall'altro?
Bruno: Per quanto mi riguarda, si influenzano per contrasto: la cosa che più è importante per me è che tutti i progetti siano molto diversi fra loro. Cerco addirittura di suonare strumenti diversi: nei Ronin suono la chitarra, per esempio. Prima i Bachi da Pietra erano una cosa molto, molto diversa dagli OvO, con l'ultimo disco, più Rock, il mio modo di suonare la batteria si era avvicinato troppo per i miei gusti a quello degli OvO, nonostante fosse comunque piuttosto diverso. Per questo motivo, con l'ultimo disco degli OvO ho voluto creare un nuovo set, passando anche un po' all'Elettronica. Non accetto di avere gruppi che siano anche lontanamente simili, e non sopporto i musicisti che si ripropongono in eterno con più pseudonimi per poi fare sempre le stesse identiche cose. Diciamo che l'unica influenza comune è quella di cercare di non fare quello che faccio con gli altri gruppi.
Stefania: Con le Allun era proprio un'altra storia, un mondo a sé: non penso che possa esistere un gruppo simile. Le origini di ?Alos, invece, sono molto diverse da quelle degli OvO: cucinavo. Nei primi live che facevo cucinavo sul palco. Nell'ultimo periodo di ?Alos possono esserci più punti in comune con gli OvO. La fondamentale differenza di questo mio progetto è che parte da un concetto che sto sviluppando, con un approccio più artistico. Ho un immaginario che voglio sviluppare a livello sociale, che tocca altri aspetti. Quando sono da sola, in me si scatena il lato "selvaggio" che Bruno tiene a freno. Il mio modo di suonare, a differenza del suo, è molto più istintivo. Siamo complementari.
Stefania, mi incuriosisce tanto il tuo enorme plettro di vetro. Come ti è venuta in mente questa idea?
Stefania: Reminiscenze dalle Allun, quando usavo tantissimi oggetti per suonare la chitarra. Il plettro di vetro, che uso ormai da quattro o cinque anni, è introvabile in Italia: è un qualcosa che utilizzano nelle scuole a Berlino (venduto ovunque in Germania) e che assomiglia a una squadra, che però serve a misurare le parabole. Ecco sì, uso proprio lui. E ogni volta che vado in Germania faccio la scorta!
Ho già posto tempo da ad un altro gruppo la domanda che sto per farvi, in questo caso mi ripeto perché mi farebbe piacere sapere qual è la vostra opinione a riguardo. Ho sempre creduto che la Musica non bisogna saperla, bensì viverla: ben venga l'apprendimento e il perfezionamento, ma il punto fondamentale è riuscire a sentirla dentro di sé, come se fosse un qualcosa di innato. Cosa ne pensate?
Bruno: Per essere così, deve essere così: devi avere la fortuna di averla veramente dentro, la Musica. Tutti devono avere il diritto di suonare: è bello che ci siano gruppi che non sanno fare niente e suonano lo stesso, com'è altrettanto bello che ci sia il super esecutore galattico che sa fare qualsiasi cosa. Il talento innato è fondamentale: se lo possiedi, sei fortunato, però lo si può anche acquisire, tramite l'esperienza e lo studio. Quando il talento è reale, e si è liberi di esprimere quello che si vuole comunicare senza rientrare negli schemi, è una grande bella cosa.
Stefania: Nei bambini questa pratica è innatissima e con la costruzione della propria conoscenza, con la scuola e tutto il resto, può essere raffinata (se desideri davvero suonare), oppure allontanata, spesso e volentieri - non a caso in Italia il problema è che l'Arte non ti dà da mangiare, e questo vale sia per la Musica che per il Disegno, doti che probabilmente avrebbero più persone se solo non venissero rimosse per un motivo o per un altro.
La Stefania Pedretti - strumento vocale con chitarra degli OvO - che mi regala questa curiosità su Fame, undicesima e ultima traccia del nuovo album Abisso, è la stessa che, dopo un'oretta circa, sale sul palco del Controsenso accompagnata dal colossale Bruno Dorella alla batteria, pronta per affrontare - col sorriso stampato in faccia e una voglia assurda di suonare - quello che si rivelerà essere un live carichissimo e sentito. Prima del concerto di Venerdì 17 Gennaio, ho passato una piacevole oretta chiacchierando con loro in una sala prove del locale, uscendone poi contenta e soddisfatta. Le mie domande e le tante parole di risposta che fluttuavano nell'aria sono state riportate per iscritto per l'intervista che state per leggere. Cominciamo! (Foto di Angelica Gallorini)
OvO: cos'è, perché.
Stefania: OvO è un po' un gioco linguistico, di parole: sarebbe semplicemente la parola "Nuovo", tagliata, con risultato "Ovo". L'abbiamo scelta quando io e Bruno avevamo deciso di fare un gruppo. Soprattutto per i nostri primi album eravamo soliti scegliere i titoli delle canzoni, o altro, a volte guardandoci intorno, nella stanza, prendendo spunto da libri vari. In quel caso, mentre discutevamo sulla scelta del nome, mi è caduto l'occhio sulla scritta "Nuovo", e quindi ho pensato a "Ovo". Pur trattandosi di tre lettere semplicissime, le sfumature che esse possono acquisire sono tante. "Ovo" sembra quasi la traduzione di "Uovo" in Portoghese, in Spagnolo, inoltre un Inglese riesce a pronunciarlo senza storpiarlo. Attira l'attenzione, ti rimane in testa, e si tratta di un nome palindromo, ovvero che può essere letto sia da sinistra verso destra, che da destra verso sinistra. In più, nel tempo ha avuto anche uno sviluppo estetico, grafico.
Bruno: Sì: col passare degli anni, nei vari volantini che ci hanno fatto, è diventato una faccia, un gufo, due persone che si tengono per mano, una bicicletta. Può trasformarsi in tante cose.
Quando e in che modo vi siete avvicinati alla Musica?
Bruno: Molto diversamente, apparteniamo a mondi del tutto differenti! Per quanto riguarda me, a dodici anni avevo già deciso che avrei fatto il musicista nella vita. Ancora prima, mio cugino mi regalò una chitarra e una cassetta degli U2: la Musica era diventata l'unica cosa che potevo pensare di saper fare. Ho avuto tanti gruppi a partire già da quando ero ragazzino.
Stefania: Per me è nata prima la passione per la Musica, nel senso che ero un'ascoltatrice in primis e soprattutto una grande amante dei concerti, per poter vivere tutto live, fisicamente. La musicista che è in me è invece nata in seguito, negli anni Novanta, quando avevo venti anni. Ho iniziato a suonare con un gruppo di altre tre ragazze con le quali gestivo un centro sociale: avevamo sempre gli strumenti a portata di mano, e abbiamo deciso così di cominciare a suonare. Poi ho iniziato con gli OvO, e con i miei progetti da solista.
Come nascono i vostri pezzi? Cosa ricercate e privilegiate maggiormente nel suono?
Bruno: Suoniamo insieme da quattordici anni, e musicalmente ci conosciamo molto bene a vicenda: quando uno inizia a suonare qualcosa, l'altro lo segue quasi a ruota. Spesso si parte da un ritmo, da un tempo, piuttosto che da un riff, anche perché abbiamo entrambi la caratteristica di ascoltare un po' di tutto, con la consapevolezza che poi questo "tutto", una volta passato per il frullatore OvO, diventi un qualcosa di più. Che so, facciamo un pezzo Stoner-Rock: io penso al Rock, Stefania ci applica il suo stile, ed ecco che il "tutto" si trasforma personalizzandosi. A volte partiamo anche da dei canovacci ritmici semplici, quasi standard, che però risultano completamente diversi quando siamo noi a risuonarli. Di solito, il "tutto" nasce da un pattern ritmico su cui Stefania poi suona e canta. Il suo aspetto eccezionale è l'improvvisazione iniziale su un pezzo che poi però rimane sempre tale e quale. Quando disegna, vede già l'immagine sul foglio bianco. Quando suona, sente un ritmo, crea di conseguenza una melodia e, senza registrarla, è capace di riprodurla anche dopo sei mesi in modo identico.
In che lingua canti, Stefania?
Stefania: Nella mia, fatta di suoni. Non uso parole, uso note. Per ricreare i pezzi, devo riascoltarmi i dischi, dall'inizio alla fine, e capire cosa ho fatto. Come una persona che deve tradurre un testo che non conosce. La mia voce è come se fosse un vero e proprio strumento: in automatico, si accorda con la tonalità del suono che percepisce. Fa strano a dirsi, ma è proprio così! Ha un'identità sua. Ora riesco a domarla un po' di più, ma alcune volte ha lei la meglio: se la stanza suona diversa, con sfumature più brillanti o no, l'intonazione cambia.
Definitemi Abisso.
Bruno: È la condizione in cui ci siamo trovati senza saperlo prima. Ce ne siamo resi conto quando eravamo già sprofondati (ride). No, è vero. Con questo album abbiamo sì sperimentato più ricchezza nel suono, approfondito più cose, messo fine alla fase minimale, però ad un certo punto ho vissuto l'esperienza Abisso come sprofondamento verticale in basso, ma potevamo interpretarlo anche come baratro dall'alto. Ci siamo ritrovati a lavorare su del materiale che ci stava sfuggendo di mano in un certo senso, ma in un modo che a noi piaceva. Avevamo capito che stava vedendo fuori una cosa che o ci avrebbe distrutto, o portato ad un altro livello. Mi rendo conto che sia un po' difficile da spiegare, però mi sono sentito davvero così. Mi ricordo benissimo il momento in cui in macchina, tornando dalla registrazione delle demo, parlavo con Stefania "Questo disco qua è un Abisso. Ci stiamo infognando in qualcosa di bello, anche se adesso non sappiamo se, e come ne usciremo". È una sensazione molto precisa.
Stefania: Ci ha proprio rivoluzionati. A volte ha preso un po' le redini anche lui. Fa strano, normalmente i musicisti non parlando del disco come se fosse un essere esterno. Ci chiedevamo "Ma noi riusciremo a portarla dal vivo questa roba?". È un concetto molto astratto da spiegare, anche perché adesso che ascolto il disco è tutto easy. Quando le persone percepiscono la nostra Musica vedono le tenebre e l'oscuro come una cosa negativa, ma non è così, non sono negative. È fare altro, sperimentare. Non credo nella luce, non credo nelle tenebre, penso all'oscuro in positivo. Andare nell'Abisso, avere una conoscenza più profonda di noi. A noi piace metterci in discussione, metterci alla prova. Questo disco è Oceano. Ecco, Abisso è Oceano con i suoi mille significati.
Cosa vi ha portato ad affrontare il cambiamento estetico nel togliere le maschere, dopo tredici anni? C'è stato un motivo in particolare?
Bruno: Ci abbiamo messo un anno a decidere, non è stato per niente semplice, e non lo è tuttora. L'idea era partita da me: a volte ero a disagio con la maschera perché sentivo che, con questo nuovo disco, si stava verificando un cambiamento a livello compositivo. Avevo capito che molte persone si fermavano all'impatto dello spettacolo live: "Vado a vedere gli OvO perché la Musica sarà altissima, spaccherà, sarà un delirio, e poi ci son questi con le maschere". Volevo staccarmi da questo aspetto perché la gente ascoltasse solo la Musica, senza porre attenzione ad altro. All'inizio Stefania non era d'accordo (conta che sull'aspetto estetico l'ultima parola è la sua), ma piano piano siamo riusciti a trovare delle motivazioni comuni. Adesso che le abbiamo tolte sono io - proprio io che avevo proposto il cambiamento - a rendermi conto di essere in difficoltà! Stefania, invece, sta benissimo, ed ha anche guadagnato molto a livello estetico. Live, quando non sono tranquillo, di solito tengo la maschera e la tolgo dopo il primo pezzo, per attutire il tutto. Queste maschere ci hanno accompagnati per tredici anni, fanno parte della nostra storia.
Stefania: Portare una maschera può significare tante cose. Quando sali sul palco e sei in una situazione di disagio, la maschera ti permette di nasconderti dagli sguardi delle persone, ponendo un distacco.
L'estetica, l'aspetto scenografico, le atmosfere che vi caratterizzano come gruppo si sposano perfettamente con la Musica che suonate: questa vostra idea di sperimentare è nata istintivamente al progetto oppure ha visto la luce in un secondo tempo, dopo qualche live? Stefania: È nata insieme al progetto. L'esperienza a 360 gradi del live è un percorso, come accade nel teatro giapponese: prima del concerto c'è chi scrive le scalette, noi ci incontriamo, ci cambiamo e già in quel momento inizia l'avventura; entriamo nel nostro mondo, focalizzandoci solo sul concerto. Tutto il resto scompare. Nel corso degli anni, il gruppo ha vissuto più "realtà": all'inizio OvO era completamente improvvisato, e Bruno ed io, durante il primo tour, suonavamo entrambi la chitarra, non c'era batteria. Ogni concerto vedeva noi due alla "base" con altre persone che suonavano con noi. Anarchia totale da gruppo aperto, e ogni sera si creava qualcosa di diverso e irripetibile. Dal 2002 abbiamo optato per il duo only ed è cambiato tutto.
Oltre al progetto OvO, ne portate avanti altri individualmente (Bruno Dorella con i Bachi da Pietra, e Stefania Pedretti con Allun e ?Alos. Questi mondi si influenzano anche minimamente oppure sono distaccati l'uno dall'altro?
Bruno: Per quanto mi riguarda, si influenzano per contrasto: la cosa che più è importante per me è che tutti i progetti siano molto diversi fra loro. Cerco addirittura di suonare strumenti diversi: nei Ronin suono la chitarra, per esempio. Prima i Bachi da Pietra erano una cosa molto, molto diversa dagli OvO, con l'ultimo disco, più Rock, il mio modo di suonare la batteria si era avvicinato troppo per i miei gusti a quello degli OvO, nonostante fosse comunque piuttosto diverso. Per questo motivo, con l'ultimo disco degli OvO ho voluto creare un nuovo set, passando anche un po' all'Elettronica. Non accetto di avere gruppi che siano anche lontanamente simili, e non sopporto i musicisti che si ripropongono in eterno con più pseudonimi per poi fare sempre le stesse identiche cose. Diciamo che l'unica influenza comune è quella di cercare di non fare quello che faccio con gli altri gruppi.
Stefania: Con le Allun era proprio un'altra storia, un mondo a sé: non penso che possa esistere un gruppo simile. Le origini di ?Alos, invece, sono molto diverse da quelle degli OvO: cucinavo. Nei primi live che facevo cucinavo sul palco. Nell'ultimo periodo di ?Alos possono esserci più punti in comune con gli OvO. La fondamentale differenza di questo mio progetto è che parte da un concetto che sto sviluppando, con un approccio più artistico. Ho un immaginario che voglio sviluppare a livello sociale, che tocca altri aspetti. Quando sono da sola, in me si scatena il lato "selvaggio" che Bruno tiene a freno. Il mio modo di suonare, a differenza del suo, è molto più istintivo. Siamo complementari.
Stefania, mi incuriosisce tanto il tuo enorme plettro di vetro. Come ti è venuta in mente questa idea?
Stefania: Reminiscenze dalle Allun, quando usavo tantissimi oggetti per suonare la chitarra. Il plettro di vetro, che uso ormai da quattro o cinque anni, è introvabile in Italia: è un qualcosa che utilizzano nelle scuole a Berlino (venduto ovunque in Germania) e che assomiglia a una squadra, che però serve a misurare le parabole. Ecco sì, uso proprio lui. E ogni volta che vado in Germania faccio la scorta!
Ho già posto tempo da ad un altro gruppo la domanda che sto per farvi, in questo caso mi ripeto perché mi farebbe piacere sapere qual è la vostra opinione a riguardo. Ho sempre creduto che la Musica non bisogna saperla, bensì viverla: ben venga l'apprendimento e il perfezionamento, ma il punto fondamentale è riuscire a sentirla dentro di sé, come se fosse un qualcosa di innato. Cosa ne pensate?
Bruno: Per essere così, deve essere così: devi avere la fortuna di averla veramente dentro, la Musica. Tutti devono avere il diritto di suonare: è bello che ci siano gruppi che non sanno fare niente e suonano lo stesso, com'è altrettanto bello che ci sia il super esecutore galattico che sa fare qualsiasi cosa. Il talento innato è fondamentale: se lo possiedi, sei fortunato, però lo si può anche acquisire, tramite l'esperienza e lo studio. Quando il talento è reale, e si è liberi di esprimere quello che si vuole comunicare senza rientrare negli schemi, è una grande bella cosa.
Stefania: Nei bambini questa pratica è innatissima e con la costruzione della propria conoscenza, con la scuola e tutto il resto, può essere raffinata (se desideri davvero suonare), oppure allontanata, spesso e volentieri - non a caso in Italia il problema è che l'Arte non ti dà da mangiare, e questo vale sia per la Musica che per il Disegno, doti che probabilmente avrebbero più persone se solo non venissero rimosse per un motivo o per un altro.
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