lunedì 11 novembre 2013

Brioscine appena sfornate: M+ A

A contrastare il grigiore del secondo lunedì di Novembre ci pensano M+A. Michele Ducci e Alesasandro Degli Angioli rispondono a delle lunghe domande circa il loro percorso, musicale e non, con un'immediatezza che infonde sicurezza. L'essere prolissi non appartiene al loro spirito, eppure il sound  che li contraddistingue è fiorito e con mille sfumature. Piumaggi colorati versus il cielo di novembre. Enjoy!


Ciao ragazzi. Iniziamo dalla fine, avete appena concluso un tour per presentare il vostro ultimo album These Days. Avete girato un bel po', com'è andata?
Molto bene, non ce l’aspettavamo, è stato tutto molto bello.

Adesso siete seguiti da un'etichetta londinese, la Monotreme Records. Si tratta di una scelta ponderata o un'insieme di casualità non del tutto casuali hanno agevolato questa collaborazione?
Lavoriamo con Monotreme da quasi due anni ormai, dall’uscita di Things.Yes nel 2011. E’ stata sia una scelta ponderata che un insieme di casualità.

All'etichetta londinese si aggiungono una serie di interventi. Dal Producer Sound and Mastering Engineer Andrea Suriani, a Foolica società di management e ancora la presenza di Marco Frattini drummer e percussionista. Non siete più solo voi due nelle vostre camere, ma siete voi due che comunicano lontani a cui si aggiungono una serie di collaborazioni. Cosa ha cambiato tutto questo nell'approccio alla creazione?
In realtà è stato così fin dall’inizio. Non siamo mai stati solo noi due. Il primo lavoro che abbiamo fatto, come am -Soundtrack- aveva diverse collaborazioni, amici che venivano a suonare qualcosa eccetera. Diciamo che oltre al fatto tecnico, c’è anche un problema di sopravvivenza: lasciare che altri manipolino quel che scriviamo è l’unico modo per poter ascoltare quel che facciamo come se non fosse nostro, per non rompere del tutto l’illusione che tiene compatta una canzone, che da vicino è solo un insetto, da lontano è una libellula: qualcosa di esterno viene messo all’interno e noi possiamo ascoltare ogni tanto le nostre canzoni.


Si è parlato di ritorno al Pop, personalmente ho percepito piuttosto la vostra capacità di trasformare il noto in mai ascoltato, come se aveste posto una sorta di filtro dai mille colori alla musica che vi "tormenta". Che ne pensate?
Ritorno al pop non lo so, le invenzioni di un’epoca, su un’ epoca, sono spesso bizzarre. Diciamola così: quel che abbiamo sempre cercato di fare è, più o meno, indagare ciò che di ovvio è presupposto da ogni canzone, convinti che in quell’ovvio, in quel noto, ci fosse lo sconosciuto della canzone.

É esatto paragonare in qualche modo il vostro metodo alla scrittura automatica, una sorta di rifiuto della tecnica di favore di un' improvvisazione libera da codici e cliché?
Per quanto riguarda l’approccio ai testi sì, anche se lo sfondo è il jazz, ma sì, c’è anche un po’ di quello. Non volevamo scrivere testi - la parte testuale, presa singolarmente, non era il nucleo fondamentale del progetto - e tutto sommato i testi sono effettivamente lasciati a se stessi, scritti da nessuno. Per quanto riguarda l’approccio alla musica no, invece. Siamo estremamente rigorosi, storici, e legati a tutti i codici e cliché possibili: ce ne facciamo carico. E questo ci piace.

In These Days mi sembra ci sia una sorta di coerenza melodica, oltre che d'atmosfera, che in Things.Yes non era possibile cogliere, non così facilmente. Che ne pensate? Attribuite la coerenza ad una maturità?
Forse sono i pezzi stessi che richiedono coerenza ed incoerenza, a seconda dei casi. Non lo so, è difficile rispondere.

Sono particolarmente interessata alla componente delle voci campionate, al concetto di elettronica sbagliata, ai brani pieni di sampling. Le leggo come intrusioni vicine ad un mondo interiore, tutto di pancia. Registrazioni dalla vostra realtà, voci, rumori, cigolii di porte erano presenti ovunque in Things. Yes., nell'ultimo album tutto ciò è meno presente. C'è una spiegazione?
No. Anche in questi caso erano e sono i pezzi a richiedere determinate cose. Diciamo che in Things.Yes erano modi per rompere e tenere mobile brani che erano già rotti e mobili, si trattava solo di dare loro il vestito che volevano. Ascoltavamo molto Kim Hiorthøy, anche.


Mi soffermo sulla componente grafica che è fondamentale nel vostro lavoro, è come se lo espandesse. Probabilmente il suono senza supporto visivo cartaceo grafico e illustrativo non esisterebbe, sembra vengano concepiti nel medesimo istante. Come avviene la scelta di una specifica identità visuale?
Non lo so, la cosa sonora è complessa, non si ascolta e basta, si vede, anche, ed ha dentro di sé un supporto visivo, a prescindere dalla grafica o da altro. Questa attenzione per l’aspetto grafico è nata spontaneamente (ed inevitabilmente direi, visto che Alessandro è grafico). Non si tratta di dare un’immagine ai suoni, un’immagine che già hanno, si tratta di far incarnare l’immagine dei suoni. Ci piace fare queste cose, come ci piace fare musica.

Riguardo invece un mood, un' atmosfera, i due album partono certamente da un percorso che li lega, allo stesso tempo sembrano quasi opporsi. Dai fiordi della Norvegia, ai cuori rossi quasi tratteggiati in cui su cui cadono gocce di pioggia, disegnati apparentemente dalla mano di un bambino, siete passati a piumaggi coloratissimi di pappagalli carioca o fenicotteri rosa. Dalla neve al sole che scotta. L'Esotismo nell'arte trova il suo apice dopo il Romanticismo, a me sembra per voi sia avvenuta un po' la stessa cosa. Spieghereste in che modo è avvenuto questo cambiamento?
Dico la prima cosa che mi viene in mente dicendo che è un po’ una questione di sguardo e di paesaggio, di pura geografia: dal mediterraneo guardavamo la Norvegia e dalla Norvegia abbiamo guardato il mediterraneo: la musica è la mappa che ci ha fatto orientare. Siamo sprofondati dentro le cose e abbiamo preso determinati colori.

Ultima domanda e poi la smetto. State preparando il live di dicembre? Ci saranno delle novità?
Delle piante, molte piante.

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